Perché Hideo Kojima ha fallito con Death Stranding (NO SPOILER)

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È passato ormai metà anno dall’uscita dell’attesissimo Death Stranding, ultimo lavoro di Hideo Kojima e della sua Kojima Productions dopo il distacco da Konami, ed è forse arrivato il momento smaltito l’hype mostruoso di capire perché quest’opera per molti non ha funzionato, detto da uno che purtroppo non l’ha proprio digerita.

Innanzitutto, per non inimicarci nessuno sarà meglio chiarire che il focus della recensione non vuol essere la critica di aspetti già largamente discussi sul web come gli scontri imbarazzanti o il gameplay “simulatore di corriere” (dato che con la giusta dose di pazienza può anche intrattenere nelle prime ore), ma bensì di ciò che ha reso PER ME il gioco un qualcosa di discontinuo e vuoto rispetto alle precedenti creazioni dell’autore, perdendosi inesorabilmente in roba riciclata e ologrammi insulsi.

La storia

Hideo Kojima è uno che di trame articolate ne sa e Death Stranding non è da meno, con un setting meraviglioso e un soggetto complesso e interessante, forse il più interessante che abbia mai portato su schermo, peccato che finiti i primi capitoli questa impostazione a mio avviso crolli: la trama e l’obbiettivo del protagonista restano invariati e bidimensionali per quasi tutto il gioco, e a cambiare saranno solo le storie dei personaggi nei vari capitoli, generalmente buoni ma non sempre riuscitissimi, che si intrecceranno con Sam.

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Quest’impostazione “filmica” finisce per essere inconcludente e pesante se consideriamo la totalità del gioco, e il fatto che un vero climax non arrivi fino alla fine porta il titolo ad essere molto più lungo del dovuto, seppur si cerchi di rompere questo andamento con “capitoli” più guidati, belli da vedere ma brutti da giocare. 

Inoltre, la scrittura solitamente sopraffina dell’autore si lascia stavolta andare a diversi strafalcioni, non tanto a buchi di trama nonostante la sua debolezza, ma proprio in fatto di qualità, soprattutto nei dialoghi dei centri logistici e dei rifugi che, quando non vengono copiati e incollati, finiscono per essere più una tortura che un premio (cito la missione dell’Artista Chirale perché sembrava presa da Gli Occhi del Cuore, ma fosse solo quella…). 

SAM PORTER CRVCIS

La mia personale esperienza di gioco su Death Stranding è stata qualcosa di straziante: nonostante mi fossi armato di pazienza, dopo innumerevoli viaggi Edge Knot City è diventata ai miei occhi il Monte Calvario e il tema della riunificazione d’America ricordava più una parabola cristiana, dove il martire Sam sfacchinava da una parte all’altra con una croce di pacchi sulle spalle, contenenti una volta importantissimi medicinali, un’altra biancheria e statuette o un’altra ancora una pizza (prima che si raffreddi grazie <3). Il gioco non si sbilancia mai nel premiare queste importantissime traversate se non con qualche gadget alla Kojima, o con una stellina da primo della classe: la soddisfazione del gioco è quella STOICA di organizzarsi il viaggio, il carico e portarlo a destinazione.

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L’intento del titolo vorrebbe esser quello di rivoluzionare le “Fetch Quests”, peccato che dopo le prime ore vengano poi riproposte sempre le stesse modalità di missioni, viaggio e interazioni per tutte le oltre 40 ore di gioco senza nessuna grande variazione, portando quindi alla volontà di “rushare” le spedizioni per vedere dove va a parare la storia. Di fatto, coloro che dicono di essersi divertiti a portare pacchi anche dopo la fine della campagna, hanno poi scoperto di essere diventati MULI a loro volta. Ops, scusate, mi ero detto di non inimicarmi nessuno, nel caso vogliate poi risolverla a pugni ci sto, ci vediamo dopo la campanella, vi aspetterò sulla spiaggia.

La corda

Death Stranding vuol essere, a detta del suo autore, il primo strand-type game e quindi si focalizza molto sulla sua esperienza online. Il gioco di fatto NASCE per dare un senso di connessione globale con tutti gli altri giocatori ma non ci riesce: l’usufruire di strumenti lasciati da altri e di lasciarne a nostra volta per ottenere like è infatti un’ottima idea che funziona male, con strutture lasciate in punti strategici che non riceveranno alcun like (come i 2 capi di una teleferica che attraversa un fiume, che ricevono uno migliaia di like e l’altro 0), e che spesso porteranno i legami in differita stabiliti online ad essere più una strada a senso unico che una vera connessione, restituendo quindi un senso di solitudine e inutilità talvolta alienante.

Tutto sommato però, tolto qualche difetto dei server, il tentativo di unire i giocatori in modo “diverso” è abbastanza buono, nonostante non sia nulla di rivoluzionario come aveva fatto intendere Kojima (e quando mai) e personalmente non superi online alternativi come quelli brevettati dai Souls, da giochi come Journey o dallo stesso Capitolo 3 di MGSV, dove i giocatori avevano VERAMENTE possibilità di scelta nell’aiutarsi in una causa comune e non ne erano letteralmente forzati dal buonismo del gioco.

L’arte

Premetto che sto scrivendo questa recensione ascoltando la colonna sonora del gioco: di fatto Death Stranding trasuda arte da tutti i pori. La ricerca e la sensibilità che sta dietro a molte delle sue scelte è qualcosa di importante e d’avanguardia per il medium ma d’altronde è Hideo Kojima, veda un po’ lei. Le ore di cutscenes e di lunghi movimenti di macchina che tanto piacciono al suo autore, la partecipazione straordinaria di attori e registi di un certo calibro ma anche le atmosfere, i trailer meravigliosi, i temi trattati e la pluralità dei punti di vista dei personaggi, tutto trasuda arte.

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Nonostante ciò, controller alla mano, il gioco non è riuscito a emozionarmi come avrei voluto: ammetto che questa è una questione più personale delle altre, ma ho trovato l’impostazione TROPPO didascalica e soprattutto VERBOSA per lasciarmi qualcosa. A colpire sono molto le immagini e il loro immaginario (sdoganato però dai numerosi trailer), ma a parte quello il gioco non regala chiavi di lettura senza prima assicurarsi che le abbiano colte tutti con linee e linee di dialogo superflue, e in un titolo in cui non c’è molto se non l’alto valore artistico l’ho trovato davvero un peccato, ma quelli son gusti.

Un altro peccato che mi son legato al dito invece, stavolta oggettivo, è l’utilizzo delle musiche di gioco: con una delle colonne sonore più vaste e intime che abbia mai sentito, le traversate del nostro Sam saranno per lo più silenziose, con le canzoni messe solo in precisi punti scelti delle spedizioni principali. A tal proposito mi piacerebbe dire al Kojimone che l’impossibilità di avere un cazzo di mp3 anche dopo aver finito il gioco non rende il tutto più speciale o autoriale, ma semplicemente priva chiunque del piacere di girare la mappa senza addormentarsi.

The Dark Side Of The Moon

Consapevole di aver scritto uno sfogo personale più che una recensione, posso smettere di rompervi il Ka e trarre 2 insegnamenti da tutta questa roba, tipo Papà Castoro: il primo è che, magari sono stato troppo duro, e Death Stranding non è così brutto.

Sia chiaro, per me lo è stato, ma per molti il gioco invece ha funzionato, e forse uno dei motivi per cui l’ho vissuto così male è stato proprio l’averlo aspettato dal primo annuncio, l’averne visto tutti i trailer un centinaio di volte teorizzando online per anni, aspettandomi qualcosa di completamente diverso. D’altronde era impossibile fermare l’hype train dopo che il mostro sacro Hideo Kojima si era finalmente liberato dalla “corporate” che lo ha intrappolato per anni, portando alla fatidica conferenza Sony dell’E3 2016 un trailer tanto bello quanto enigmatico ma che, a posteriori, non parlava tanto del gioco (perché del gioco finale c’è poco), quanto del suo UMILISSIMO autore, completamente privato di ogni sua creazione e con ancora addosso le manette di ciò che era stato.

E forse questo si riallaccia un po’ col secondo insegnamento che ho tratto da Death Stranding: di fronte a una personalità che ha sempre catalizzato l’attenzione dell’industria su di sé forse è mancato il coraggio, e non di un autore che c’è e si sente anche troppo, ma di un team o di un publisher, il coraggio di mettere in discussione le idee del singolo genio, che rimane comunque un singolo innamorato e sicuro della propria opera, incapace di vederne anche le pecche più grossolane, portando quindi a un gioco divisorio che o ami coi suoi difetti o odii nei suoi pregi, ma questo d’altronde è il rischio di finanziare un progetto mastodontico di un creator col solo intento di (ri)metterne il nome sulla copertina.

BincoBallino

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1 commento su “Perché Hideo Kojima ha fallito con Death Stranding (NO SPOILER)”

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